Votare al Referendum per dimostrare che il lavoro in Italia non è una causa persa - Lucy
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Davide Orecchio

Votare al Referendum per dimostrare che il lavoro in Italia non è una causa persa

05 Giugno 2025

Dedichiamo circa 33 anni della nostra vita al lavoro. Per questo abbiamo il dovere di renderlo dignitoso per tutti noi andando a votare l'8 e il 9 giugno

Se qualcuno mi chiedesse quand’è che questo Paese si è convinto che il Lavoro è una causa persa, non saprei indicare una data precisa ma potrei stendere un lungo elenco di eventi, gloriose sconfitte, leggi reazionarie, leggi mancate, accanimenti di destra, sbandate e scarsa, o del tutto assente, lucidità di sinistra. Tutto in poco più di vent’anni schifosi e ingiusti nei confronti di chi lavora. Quanto basta per scoraggiare i più ottimisti.

Non è una causa persa

Ma se qualcun altro chiedesse: “Quand’è che questo Paese si convincerà che il Lavoro non è una causa persa?”, una data da suggerire ce l’avrei, ed è il prossimo fine settimana. L’8 giugno andrò a votare Sì per cinque referendum abrogativi che sono di straordinaria importanza. Quattro quesiti sul lavoro presentati dalla Cgil e uno sulla cittadinanza. Perché i diritti si tengono assieme, non si elidono. È una tessitura e una crescita. E chi ha bisogno della cittadinanza italiana non vive di rendita. E dobbiamo riconoscere la cittadinanza a oltre due milioni e mezzo di nostri “concittadini” invisibili, che lavorano o studiano – e un giorno lavoreranno. Questi referendum sono talmente importanti che sui media tradizionali è calato il silenzio. Le forze che governano il Paese spingono per il fallimento del quorum. Molte persone non sono adeguatamente informate. Peccato.

Eppure con questo voto la comunità allargata della quale mi sento parte ha l’occasione di rimettere a fuoco alcuni valori. Ma deve riconoscere l’obiettiva realtà: come si è ridotto male questo Paese con i suoi morti sul lavoro (sono sempre 3 al giorno, come se vivessimo ancora negli anni ‘50 del “supersfruttamento”), con la sua precarietà, con i suoi ricatti (“ti licenzio, ti do due soldi di indennizzo, sparisci”). Poi deve decidere senza deleghe, senza mediazioni, che si può cambiare e ritrovare un percorso civile. 

Il dovere del voto

Per come la vedo io, votare l’8 e 9 giugno è più un dovere che un diritto. Perché? La risposta viene, anche, da una tragedia che non sarebbe accaduta se quanto chiede il quarto quesito sulla tutela dei lavoratori negli appalti fosse già in vigore. È la storia purtroppo nota di un ragazzo di 22 anni, Kevin Laganà, che insieme ad altri quattro compagni fu travolto e ucciso da un treno, nella stazione piemontese di Brandizzo, il 30 agosto del 2023. Il regionale diretto a Torino correva a 160 chilometri orari. Kevin e gli altri erano impegnati in un’operazione di manutenzione di quel tratto ferroviario. Scesero a lavorare sui binari pensando di essere al sicuro; non lo erano.

Nel processo su questa strage è finito sotto inchiesta un più ampio sistema di divisione e frammentazione deresponsabilizzata del lavoro. Kevin e i suoi compagni uccisi lavoravano per una ditta in subappalto che, a sua volta, lavorava per una ditta in appalto che, a sua volta, aveva ricevuto l’appalto dal committente principale: la Rete Ferroviaria Italiana (Gruppo FS). Le norme in vigore impediscono di estendere la responsabilità solidale all’azienda appaltante per il risarcimento in caso di infortuni sul lavoro. Il quarto quesito chiede di rimuoverle: a quel punto qualsiasi grande impresa capofila sarebbe tenuta a riorganizzare il “controllo” sulla propria filiera e a vigilare sulla salute e sicurezza dei lavoratori.

I cinque quesiti

Salvare la vita di un lavoratore è un motivo più che sufficiente per andare a votare. Dovremmo essere già in fila davanti ai seggi, solo per questo motivo. Gli altri quesiti eccoli qui, anche se alcuni di voi forse li conosceranno ormai a memoria: il primo chiede l’eliminazione della norma del Jobs Act che vieta la reintegrazione per licenziamento illegittimo nelle grandi aziende (quindi, come ha sintetizzato efficacemente Cecilia Strada, chiede che si possa tornare al lavoro dopo un licenziamento illegittimo); il secondo chiede la rimozione del limite di sei mensilità di risarcimento per i licenziamenti nelle piccole imprese, e dunque un indennizzo più congruo per i lavoratori mandati a casa; il terzo chiede l’abrogazione delle norme che permettono contratti a termine fino a 12 mesi senza giustificazione, quindi mette una museruola alla bestia della precarizzazione; il quinto propone di ridurre da dieci a cinque anni l’attesa della cittadinanza italiana per chi ne ha diritto.

La chiesa e il villaggio

Anni fa un allenatore di calcio, Rudi Garcia, dopo avere vinto una partita importante, annunciò di avere rimesso “la chiesa al centro del villaggio”. In fondo, i referendum dell’8-9 giugno vogliono fare esattamente questo, vogliono rimettere le cose a posto. E non mi farei distrarre troppo da certe voci che argomentano sull’inutilità o nocività soprattutto dei primi due quesiti, addirittura paventando il fallimento delle piccole imprese in ragione di eventuali indennità di licenziamento troppo alte (qualora passasse il secondo quesito): nessun magistrato lascerebbe fallire una piccola impresa comminando risarcimenti economici al di sopra della sua portata. E, se proprio avete dei dubbi, qui e qui potete approfondire la questione.

L’ultima buona notizia è lontana nel tempo

Adesso vi propongo un gioco. Chiudete gli occhi e provate a ricordare l’ultima buona notizia che abbia riguardato il Lavoro. Senza rifletterci troppo. Il primo ricordo che affiora. Gioco anche io (non mi tiro indietro). Il mio risale a molto tempo fa, alla manifestazione della Cgil al Circo Massimo del 23 marzo 2002, quella che fermò l’assalto all’articolo 18 del secondo governo Berlusconi. Io sto messo così, voi non so. Quel giorno, per mia sfortuna personale, non me lo sono nemmeno goduto. Ero chiuso in una piccola stanza mentre tutto il mondo scendeva in piazza. Ero incollato al flebile audio che proveniva dal Circo Massimo. Dovevo ascoltare il comizio di Sergio Cofferati e scrivere un pezzo rapidamente. All’epoca il wi-fi non era molto diffuso e non esistevano smartphone, i computer dovevano rimanere saldamente collegati a una fragile rete fissa, e io ero saldamente confinato nella mia stanza. Anche il ricordo migliore, per me, è un po’ sfigato.

“Salvare la vita di un lavoratore è un motivo più che sufficiente per andare a votare. Dovremmo essere già in fila davanti ai seggi, solo per questo motivo”.

Da qualche anno avevo iniziato a seguire il Lavoro con ingenuità e inesperienza. Venivo da un altro mondo. Studi storici ottocenteschi, archivi e biblioteche. Non avevo la minima idea di quanto feroce potesse essere il clima nel quale mi stavo per cacciare. Dopo più di vent’anni tutto quello che ho imparato l’ho appreso dall’esperienza, dall’osservazione, e tirando le somme posso dire di avere visto una lunga guerra, spesso a bassa intensità, senza decessi, solo combattuta a colpi di leggi sbagliate e di scioperi, oppure, al contrario, trafitta da morti, troppe morti, le vittime sul lavoro, i ragazzi come Kevin, o i giuslavoristi assassinati dalle ultime, grottesche frange del terrorismo italiano, studiosi caduti nello stesso solco insanguinato lasciato da Ezio Tarantelli, uomini come Massimo D’Antona e Marco Biagi. Proprio il 20 maggio del 1999, ricevendo la notizia dell’omicidio D’Antona, mi resi conto dell’attrito di forze che il Lavoro poteva scatenare, e diventai in qualche modo politicamente adulto, consapevole.

Come ci siamo ridotti?

Da allora è trascorso un tempo sconfinato, e il bilancio che ricavo è che in questi anni non esiste un “settore” della vita umana che abbia subìto più assalti e sabotaggi del Lavoro. Tra manomissioni legislative, delocalizzazioni, riduzione dei diritti è stato tutto un togliere, e siamo entrati nel tempo dei rider, della logistica sfrenata, dell’algoritmo, dei salari ormai ridicoli, del licenziamento facile, della cantieristica in subappalto. E non è che il mondo della cultura sia immune da questa malattia dell’incertezza e della precarietà, lo sanno bene i librai, i redattori editoriali, i traduttori, lo sanno persino gli scrittori. Qualche giorno fa la traduttrice e editor Martina Testa, nel suo intervento alla maratona romana contro l’astensionismo, l’ha spiegato con queste parole:

“Lavoro da venticinque anni nell’editoria indipendente con l’idea che pubblicare libri sia un gesto politico; lavoro come traduttrice con l’idea che tradurre sia un gesto fortemente politico, un modo per creare ponti. Che il mio lavoro sia profondamente politico è vero, ma non basta. Rientro dal Salone del Libro di Torino, dove gli editori competono per la visibilità e si congratulano per le copie vendute. Ogni anno questa grossa kermesse ci fa credere che quello che facciamo abbia un senso, ma in realtà il lavoro editoriale è sempre più precario, e l’impresa editoriale in questo Paese non riesce più ad avere un ruolo di indirizzo culturale, deve soltanto cercare di sopravvivere nel cosiddetto mercato libero, che tale non è”.

Sembra quasi un miracolo che esista ancora il sindacato. E dobbiamo ringraziarlo per avere tenuto duro. Qualcuno nelle alte sfere ha lungamente tirato i remi in barca. Qualcuno ha remato contro il Lavoro. Per questo motivo qualcun altro, cioè noi, farebbe bene a riportare la chiesa al centro del villaggio.

La lunga lotta tra precarietà e tutele

Per capire dove ci troviamo, e perché il più grande sindacato italiano per la prima volta nella sua storia ricorra allo strumento dei referendum, può essere utile uno sguardo, appunto, storico. Eloisa Betti è una studiosa dell’età contemporanea, autrice del saggio Precari e precarie: una storia dell’Italia repubblicana (Carocci 2019). Ho avuto l’occasione di intervistarla a proposito del suo libro e mi prendo la libertà, qui, di riprendere e rielaborare quanto mi spiegò all’epoca. Provo a riassumere e parafrasare con le parole che seguono.

La storia della Repubblica italiana è stata segnata da un conflitto continuo tra precarietà e stabilità del lavoro. Durante la seconda metà del Novecento, il cosiddetto “trentennio glorioso”, è prevalsa una spinta verso la tutela e la stabilizzazione. Negli ultimi quarant’anni, invece, questa tendenza si è invertita, lasciando spazio alla precarizzazione. Betti ha analizzato questa lunga parabola mostrando come la precarietà non sia affatto una novità della società postfordista, ma un elemento strutturale e ricorrente che ha assunto nel tempo forme e nomi diversi, coinvolgendo generazioni differenti. La novità, oggi, è l’indebolimento degli strumenti politici e legislativi che in passato hanno permesso di contrastarla.

La stabilità non solo contrattuale ed economica, ma di tutele e diritti conquistata tra gli anni ‘50 e i ‘70 del secolo scorso non fu una semplice conseguenza della prosperità economica, ma il risultato di mobilitazioni sociali, lotte sindacali e interventi legislativi scaturiti da importanti Commissioni d’inchiesta parlamentari. Si ottennero conquiste fondamentali come il ridimensionamento e l’eliminazione dell’appalto di manodopera e la regolazione dei contratti a termine. La stabilità lavorativa fu riconosciuta come valore centrale, associata alla dignità del lavoro e al progresso civile.

Dagli anni ‘80 in poi tutto cambiò. La flessibilità diventò la nuova parola d’ordine. Il valore della stabilità cominciò a essere letto come un ostacolo. Questo mutamento di prospettiva ridefinì le priorità delle politiche del Lavoro e aprì la strada a un graduale ma inesorabile smantellamento delle tutele ottenute.

Quello che vuole spiegarci Betti è che il dramma dell’attuale precarietà è radicato in una storia più lunga, che ha visto ciclicamente riaffiorare dinamiche di esclusione, debolezza contrattuale e assenza di garanzie. La precarietà non è né una parentesi né una deriva recente, ma la conseguenza storica (qui nel senso di replicabile e replicata) di precise scelte politiche e legislative.

Hanno abbandonato il Lavoro

I Parlamenti e i governi delle ultime legislature hanno rinunciato deliberatamente a “curare” il Lavoro. Ammettiamolo: l’hanno abbandonato. Ecco la ragione del referendum, iniziativa inconsueta per un sindacato. Ma è uno strumento che ci convoca a un preciso atto di responsabilità. Come successe agli italiani che ci hanno preceduto quando si trattò di decidere su aborto, divorzio, repubblica o monarchia. Ci si può tirare indietro?

“La rinuncia a decidere sui problemi comuni – ha scritto giorni fa Gaetano Azzariti – rende possibile a una minoranza di governare senza controllo e responsabilità”. E ancora: “Si tratta di decidere se vogliamo continuare a lasciare ad altri il campo libero sul futuro del lavoro nelle sue diverse forme e sulle politiche migratorie o se invece crediamo che sia giunto il tempo di dire la nostra: battere almeno un colpo”.

Un antidoto all’astensionismo narrativo

Prima di battere questo colpo, insomma prima di chiudere, aggiungo un’ultima, piccola storia. Lo scorso inverno un gruppo di scrittori e scrittrici ha iniziato a riunirsi per capire come dare una mano alla campagna referendaria. Sono emerse tante proposte, ma alla fine l’idea più sensata è stata quella avanzata da Carola Susani: “Cosa possiamo fare per questa campagna? Sappiamo scrivere. E allora scriviamo”. Semplice.

Così abbiamo raccolto gli autori e, grazie alla collaborazione con Collettiva, il giornale online della Cgil, ciascuno di loro è stato messo in contatto con una lavoratrice o un lavoratore per incontrarlo, ascoltarlo, raccoglierne la storia e raccontarla. Queste storie stanno uscendo a puntate su Collettiva. E mi sembrano belle. Però è successo un fatto curioso: un’iniziativa nata per essere utile alla campagna referendaria si è rivelata utile anche agli scrittori. Ragioniamo in una introduzione a due mani con Carola Susani:

“I racconti (…) sono la resa testuale di dialoghi preziosi soprattutto per gli autori, che hanno potuto guardare e ascoltare l’obiettiva realtà e restituirla in (…) un ritratto. (…) Potremmo anche intenderle come storie esemplari (…) nella loro concretezza sociale e politica, nelle parole e nei bisogni che sollevano. (…) Alcune vite in rappresentanza di molte altre, le vite che compongono il nostro mondo del lavoro ignorato da decine di anni nei suoi diritti, nel suo orizzonte di speranza e attesa. Un mondo che vuole rimettersi in cammino”.

Non accade così spesso che la letteratura racconti il Lavoro. E quando accade lo si cataloga come fenomeno letterario di nicchia, scaffale working class. Forse la ragione di questa indifferenza sta nell’impressione sbagliata che il Lavoro sia una causa persa (e qui mi ripeto, l’ho già scritto all’inizio). Del resto anche gli scrittori, col loro disincanto politico e individualismo, sono figli del tempo che ci è toccato in sorte. Allora questa iniziativa è stata anche una piccola medicina contro l’astensionismo narrativo? Forse sì. Si tratta ovviamente di una semplificazione: le firme che hanno aderito raccontano il lavoro da tempo o lo conoscono bene, e sono civicamente coinvolte, altrimenti non avrebbero partecipato. Diciamo che hanno voluto mandare un messaggio collettivo. Diciamo che ogni forma di astensione – che sia dalle storie o dalle urne – dev’essere sempre curata e risolta.

I testi li stiamo raccogliendo qui. Mi limito a citare un brano per tutti. È un estratto da Le due vite di Giulia di Maria Grazia Calandrone, che ha incontrato Maria Giulia Dalla Brea, la vedova di Stefano Fallone, un lavoratore morto in un cantiere edile a Roma:

“Ha un sorriso luminoso e mi invita a sedere insieme a lei su una panchina di marmo battuta da un sole già estivo. Dico Raccontami di te, tu chi sei. Mi dice Sono due persone, quella che era con Stefano e quella di adesso. (…) Quando gli hanno fatto l’autopsia, speravo gli trovassero qualche male, invece era sanissimo, aveva una lunga aspettativa di vita. Ho provato una grande rabbia, poi ho capito che farmi male così non aveva senso. Ho la fortuna di essere viva, non posso farlo fallire due volte, rovinandomi la vita che ho, e che lui mi ha insegnato ad apprezzare”.

Per tutti noi che abbiamo la fortuna di essere vivi, è il momento di aprire gli occhi. Il mondo che “abita” in quei 5 quesiti ha bisogno di buone notizie, ha bisogno di cinque Sì. 

(E, comunque vada a finire, dopo il 9 giugno non perdiamoci di vista. Il dovere di cambiare le cose non ha una data di scadenza. Non disperiamo.)

Davide Orecchio

Davide Orecchio è giornalista e scrittore. Il suo ultimo libro è Lettere a una fanciulla che non risponde (Bompiani, 2024).

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